Efficace nella demenza frontotemporale una terapia serotoninergica

 

                                  

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 30 maggio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La variante comportamentale della demenza lobare frontotemporale (o frontotemporal lobar degeneration, FTLD) costituisce un problema di terapia psichiatrica di difficile soluzione. Se la definita origine neuropatologica delle manifestazioni cliniche orienta subito per una psicofarmacoterapia, la strategia terapeutica da adottare rimane ancora un rebus.

È facile riconoscere in questi pazienti, ad una osservazione ragionata, la disinibizione, ossia la notevole riduzione del controllo inibitorio, all’origine di manifestazioni riconducibili a condotte impulsive e impetuose, spesso difficili da gestire o contenere.

Hughes e colleghi, prendendo le mosse da queste considerazioni, hanno ipotizzato che il difetto di controllo inibitorio fosse da attribuirsi alla degenerazione di popolazioni neuroniche del sistema serotoninergico centrale, cioè l’insieme dei neuroni cerebrali che segnala mediante il rilascio di 5-HT (5-idrossitriptamina) ed è strettamente associato a funzioni di controllo inibitorio. I ricercatori hanno perciò concepito la sperimentazione di un trattamento tendente a potenziare la funzione serotoninergica deficitaria, anche nell’ottica di un possibile effetto positivo sul controllo inibitorio.

In effetti, Hughes e colleghi hanno tenuto conto di quanto emerso da recenti studi preclinici sui sistemi serotoninergici ed hanno attentamente vagliato vari interventi psicofarmacologici in altri disturbi, desumendo e prevedendo che l’inibizione sarebbe stata associata alla circonvoluzione frontale inferiore dell’emisfero destro e 5-HT dipendente[1].

I ricercatori hanno così indagato le basi neurali della disinibizione psichica manifestata da pazienti affetti dalla variante comportamentale della demenza frontotemporale. In uno studio in doppio-cieco randomizzato e controllato, hanno messo a confronto il citalopram, inibitore selettivo della ricaptazione di 5-HT, con un placebo in 12 pazienti sottoposti ad un protocollo di studio morfo-funzionale. L’esito, che sarà pubblicato su Brain, merita l’attenzione di ricercatori e clinici, e suggerisce il prosieguo delle osservazioni (Hughes L. E., et al., Improving response inhibition systems in frontotemporal dementia with citalopram. Brain – Epub ahead of print May 21. pii:awv133, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Division of Clinical Pharmacology, Department of Pharmachology and Toxicology, University of Leipzig (Germania); Department of Clinical Neurosciences, University of Cambridge, UK 2 Medical Research Council Cognition and Brain Sciences Unit, Cambridge (Regno Unito).

Fino ad una trentina di anni fa, la demenza frontotemporale era chiamata malattia di Pick, dal neuropatologo di Praga Arnold Pick che già nel 1892 aveva descritto una forma di atrofia lobare, ossia prevalentemente localizzata ai lobi frontale e temporale, in contrapposizione con le forme in cui il processo neurodegenerativo appariva diffuso e non circoscritto ad uno o due lobi del cervello. In realtà, Pick aveva introdotto il concetto di atrofia lobare per indicare l’interessamento complessivo della sostanza bianca e della materia grigia e distinguerlo dalle forme di degenerazione diffusa che sembravano interessare quasi esclusivamente la corteccia cerebrale. Pertanto, inizialmente il riferimento ai lobi aveva l’intento di sottolineare un elemento distintivo dell’osservazione istopatologica al microscopio ottico: atrofia lobare contrapposta all’atrofia corticale rilevata nella maggior parte degli studi autoptici di cervelli di pazienti affetti da demenza.

Nel 1911 Alois Alzheimer fornì il primo studio dettagliato dei cambiamenti microscopici rilevabili nel cervello di questi pazienti, seguito da una precisa analisi delle alterazioni patologiche. Dopo la descrizione da parte del neuropatologo tedesco del quadro istopatologico della neurodegenerazione che porta il suo nome (malattia di Alzheimer), fu evidente che, mentre in questo caso l’atrofia è distribuita estesamente sulla superficie corticale del cervello, nella malattia descritta per primo da Pick l’atrofia è circoscritta e spesso asimmetrica, potendo dar luogo a caratteristiche sindromi cliniche quali, ad esempio, le forme caratterizzate da afasia progressiva per localizzazione frontale sinistra.

Attualmente le definizioni atrofia lobare frontotemporale e demenza frontotemporale sono adoperate da neuropatologi e neurologi per riferirsi a quadri clinici originati da degenerazione a sede nei lobi frontale e temporale e prevalentemente espresse nelle due categorie cliniche della (1) variante comportamentale della demenza lobare fronto-temporale e (2) afasie progressive primarie, alle quali si aggiunge la meno studiata (3) atrofia corticale posteriore.

La variante comportamentale si manifesta con alterazioni della personalità e del comportamento che includono disinibizione, apatia, perseverazione, deficit nelle abilità di astrazione e giudizio, perdita di capacità empatica, affettività incongrua o bizzarra, disturbi dell’alimentazione e generale perdita di interesse e capacità di impegnarsi in compiti che richiedono attenzione continua ed intenzione protratta fino al raggiungimento di uno scopo. La diagnosi iniziale di depressione è frequente. La consapevolezza di sé è quasi sempre compromessa e manca la coscienza di malattia (anosognosia), in alcuni casi si sviluppa tendenza all’euforia o al compimento di azioni ripetitive compulsive. Fra i sintomi psichiatrici delle fasi avanzate vi sono comportamenti disinibiti, spesso associati ad iperoralità ed iperfagia, che possono giungere fino a vere e proprie condotte sociopatiche.

In questi casi lo studio del cervello mediante risonanza magnetica nucleare e funzionale mostra atrofia ed ipofunzione nei lobi frontali, generalmente con reperti asimmetrici. Una quota variabile di questi pazienti presenta sintomi parkinsoniani. In un piccolo numero di casi si ha l’associazione con la malattia del motoneurone nella forma della sclerosi laterale amiotrofica (SLA), come nel caso della varietà detta Western Pacific (Guamanian) e nell’atrofia frontotemporale eredofamiliare, associata a mutazione sul cromosoma 17. La maggior parte dei casi è sporadica, mentre la varietà ereditaria associata al cromosoma 17, in cui il parkinsonismo è marcato, sembra costituire un’entità patologica a se stante. In questi casi ereditari la deposizione intracellulare di tau è sorprendente, sia nei neuroni della corteccia cerebrale frontale e temporale, sia in quelli mesencefalici della sostanza nera. In pochi casi familiari questo processo è attribuibile a mutazioni nel gene sul cromosoma 17 che codifica la proteina tau. Queste mutazioni alterano le proporzioni fisiologiche delle differenti isoforme della proteina, portando sia alla sua iperfosforilazione sia al suo accumulo. In realtà, in molti casi di demenza frontotemporale sono state accertate mutazioni nel gene della proteina tau, ma a questo reperto non è stato attribuito il rilievo eziopatogenetico che in passato si sarebbe potuto attendere, perché aggregati anomali di tau sono stati descritti praticamente in tutti i tipi di atrofie neurodegenerative. D’altra parte, sono stati descritti casi di demenza frontotemporale identica a quella dei pazienti “tau-reattivi” senza alcuna evidenza istologica di tau o sinucleina patologica nei neuroni. Molti dei casi a predominante interessamento frontale hanno mostrato deposizioni della proteina progranulina.

Prima di passare ad un’esposizione sintetica del lavoro di Hughes e colleghi, ricordiamo qualche nozione sui sistemi neuronici serotoninergici dell’encefalo.

Dahlstrom e Fuxe descrissero all’interno dei nuclei del rafe nove gruppi di neuroni serotoninergici che contrassegnarono con la lettera “B” seguita da un numero progressivo da 1 a 9 (B1 – B9). Per la limitata sensibilità del metodo dell’istofluorescenza, l’innervazione serotoninergica del proencefalo è stata a lungo sottostimata. Tecniche sempre più selettive e sensibili[2] hanno consentito di definire gran parte della ricca trama di connessioni diffusa attraverso tutto il proencefalo. Il gruppo di pirenofori maggiore per dimensione è il B7, che continua caudalmente con B6. Esteso è anche B8, corrispondente al nucleo mediano, mentre B9 occupa il tegmento ventrolaterale di ponte e mesencefalo, costituendo una espansione laterale dei sistemi serotoninergici rispetto alla principale concentrazione presso al linea mediana. Le proiezioni derivate da questi e dagli altri nuclei che contengono il soma cellulare di neuroni serotoninergici, configurano una organizzazione morfo-funzionale che suggerisce il ruolo dei sistemi segnalanti mediante 5-HT nelle funzioni mentali e nei disturbi psichiatrici[3].

L’innervazione altamente organizzata delle strutture del proencefalo da parte dei neuroni serotoninergici del rafe è molto interessante, perché implica per gruppi di cellule nervose segnalanti mediante serotonina funzioni indipendenti, definite dalla loro origine e, soprattutto, dal ruolo dei differenti neuroni post-sinaptici che vanno ad innervare. Questo rilievo si contrappone alla visione del ruolo non selettivo, generico e complessivo nel cervello, svolto dal “sistema serotoninergico”, secondo la ratio farmacologica più comune. In proposito ricordiamo che, accanto alla funzione di “modulazione di bassa frequenza” che può senz’altro attribuirsi ad azioni costantemente svolte da neuroni serotoninergici, gli studi recenti hanno confermato i ruoli tradizionalmente riconosciuti alla 5-HT: modulazione della funzione neuroendocrina, dei ritmi circadiani, del sonno, del comportamento alimentare, della quantità di cibo assunto; regolazione paracrina; assetto del tono di attività cerebrale in rapporto allo stato di allerta o attivazione motoria.

Tanto premesso, ritorniamo al lavoro di Hughes e colleghi.

Lo studio aveva lo scopo di indagare le basi neurali della disinibizione nella variante comportamentale della demenza lobare frontotemporale e gli effetti di un inibitore selettivo della ricaptazione della 5-HT (citalopram) sui sistemi neuronici dedicati all’inibizione della risposta. A tale fine, i ricercatori hanno impiegato un paradigma Go-NoGo e l’analisi funzionale mediante magnetoencefalografia (MEG) ed elettroencefalografia (EEG) di volontari sottoposti ad una sperimentazione clinica secondo un protocollo di studio randomizzato in doppio cieco secondo il classico crossover farmaco contro placebo. I 12 pazienti studiati hanno ricevuto sia una singola dose di 30 mg di citalopram sia un placebo.

Per ottenere dati normativi per il compito, è stato costituito un gruppo di controllo composto da 20 volontari in buona salute e di età corrispondente a quella dei 12 affetti dalla variante comportamentale della demenza. In questo gruppo di persone sane le prove NoGo con esito positivo evocavano 2 definiti indici di successo nell’inibizione della risposta: NoGO-N2 e NoGo-P3.

Entrambi questi indici erano significativamente attenuati nelle persone affette dalla variante comportamentale della demenza frontotemporale.

Nei soggetti sani di controllo sono state identificate, mediante MEG ed EEG, delle probabili fonti corticali delle risposte inibitorie esercitate con successo nel giro frontale inferiore di destra e nella regione anteriore del lobo temporale. Entrambi questi territori corticali hanno rivelato, in precedenti studi lesionali e di imaging cerebrale, una forte associazione con l’inibizione comportamentale. La verifica dei dati MEG ed EEG ha mostrato chiaramente che, nei pazienti affetti da demenza lobare, era compromessa l’attività nelle aree della corteccia cerebrale ritenute fonti dei processi che, attraverso l’esecutività interneuronica mediata da GABA, causano inibizione degli atti studiati mediante il compito sperimentale.

È anche risultato evidente che il citalopram era in grado di accentuare il segnale NoGo-P3 nei pazienti, in maniera critica nel confronto con il placebo, e provocava un netto incremento della risposta evocata nel giro frontale inferiore di destra.

Lo studio morfometrico basato sul voxel (voxel-based morfometry) ha confermato nei dodici pazienti un’atrofia di entità significativa della circonvoluzione frontale inferiore, associata a reperti atrofici nella corteccia cerebrale dell’insula, della regione orbitofrontale - che sappiamo implicata nella maggior parte delle funzioni cognitive - e del lobo temporale.

Nell’insieme, i dati emersi da questo studio suggeriscono che la disfunzione dei sistemi corticali prefrontali sottostante il deficit di inibizione della risposta che si verifica nella variante comportamentale della demenza lobare frontotemporale, può essere parzialmente compensata accrescendo la quota di 5-HT disponibile per la neurotrasmissione con un inibitore selettivo della ricaptazione. Gli autori dello studio sostengono che quanto da loro osservato supporta un approccio di translational neuroscience ai disturbi neurologici impulsivi e suggerisce il trattamento della disinibizione, in questa forma di demenza, con farmaci antidepressivi.

Per quanto riguarda la nostra opinione sull’indicazione al trattamento con antidepressivi, riteniamo che sarà necessario verificare e approfondire la significatività di questi risultati, non per generica prudenza, ma per fondati dubbi che nascono da una valutazione basata su una singola somministrazione, in un campione di soli 12 pazienti.

 

L’autrice della nota, ringraziando il professor Rossi per i cenni storici, la dottoressa Rezzoni per i dati clinici e la dottoressa Floriani per la correzione della bozza, invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-30 maggio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] In altre parole, gli autori dello studio si sono limitati a sperimentare un farmaco antidepressivo nella variante comportamentale della demenza frontotemporale, basandosi su un razionale ricavato soprattutto dalla sperimentazione di base, citata nella bibliografia dell’articolo e alla quale si rimanda il lettore, sia per la conoscenza diretta dei dati, sia per il riconoscimento dei reali meriti, se ve ne sono, ai ricercatori che hanno ottenuto nuove conoscenze in questo campo della fisiologia dei sistemi serotoninergici dell’encefalo dei mammiferi.

[2] Immunoistochimica della 5-HT e dell’enzima specifico per la sua sintesi, la triptofano idrossilasi [L-triptofano-5-monossigenasi (EC 1.14.16.4)]; e poi tecniche per lo studio del trasporto assonico anterogrado e retrogrado.

[3] Cfr. i capitoli sulla serotonina di Perrella, Appunti di Neurochimica, BM&L, Firenze 2006, e Brady, Siegel, Albers, Price, Basic Neurochemistry, 8th ed.,  Elsevier, 2012.